A poche curve di distanza dalla mia vecchia casa, riposa il Caporale.
L’abitazione si trova a ridosso di una curva, su una strada di montagna che avrò percorso mille volte, ma per qualche assurda ragione non l’avevo mai notata. Fino ad allora.
È passato un po’ di tempo da quando sono andato a trovarlo, ma ricordo ancora molte cose con chiarezza. Ad esempio, ricordo che era una giornata uggiosa di novembre. Di quelle giornate che faresti meglio a stare a casa, a rilassarti con un buon libro o della buona musica. Invece ero salito in auto, portando con me poco e niente, alla ricerca di qualcosa.
Sarebbe tutto molto più semplice, pensavo, se sapessi dove si trova. Sarebbe tutto ancora più semplice se avessi idea di cosa io stia cercando.
Ma, improvvisamente eccola lì: la casa abbandonata del Caporale, immobile e decadente. Era sempre stata lì, ma la mia mente aveva normalizzato quel tratto di strada a tal punto da conferirle una sorta di invisibilità ai miei occhi.
Parcheggiai l’auto poco più avanti, mi infilai la giacca e mi accostai all’abitazione. La porta era socchiusa e suggeriva un timido invito ad entrare ma, come sempre, con cautela discrezione.Affacciandomi un poco, riuscii immediatamente a percepire l’inconfondibile aria dell’abbandono: odore di muffa e polvere, aria fresca e pesante.
Le prime stanze erano vuote e quasi completamente spoglie. Erano rimasti soltanto alcuni mobili, pochi quadri ed oggetti sparsi come chiazze tridimensionali ed impolverate su di una tela logora e gialla. Le ragnatele e la polvere la dicono lunga su quanto tempo le cose siano state immobili al loro posto, ed in questo caso doveva trattarsi di un’eternità.
Personalmente, c’è qualcosa che mi spinge a credere che i colori delle case abbandonate abbiano dei connotati estremamente artistici e profondi. Non c’è artificio, non c’è ordine. È semplicemente il tempo che passa lasciando la sua firma, senza tentare di nascondere niente; la noncuranza gioca a carte scoperte. Questo mi fa pensare all’inevitabile, alla fine, alla morte, alle ore che trascorriamo ogni giorno spazzando via la polvere, togliendo ragnatele, grattando via la muffa dalle pareti per poi ridipingerle. Tutte attività che servono a nascondere l’ineluttabile trascorrere del tempo. Anzi: a nasconderci da esso.
Comunque.Avevo con me soltanto il telefono. Poteva bastare. Per questo tipo di esplorazioni urbane, è preferibile viaggiare leggeri, senza perdere troppo tempo a cercare di cogliere la migliore angolazione per portarsi a casa scatti impeccabili. Anche perché, tutto sommato, in questo caso non c’era granché da fotografare.
Una volta salita la prima rampa di scale, la situazione non cambiò di molto. Altre stanze quasi completamente vuote, una vecchia credenza, un letto, una sedia, un ombrello ammuffito. Erano perlopiù i piccoli oggetti ad attirare la mia attenzione: sembrava che colui che si era preso a suo tempo la briga a di svuotare la casa, avesse lasciato di proposito tutti i ricordi, portando con sé soltanto tutte quelle cose che possedevano un'utilità pratica. Dopotutto, la memoria è un peso apparentemente inutile da sostenere, specialmente se quella degli altri. C’erano foto, lettere, medicine, un paio di occhiali impolverati. E nel proseguire la perlustrazione, qualcosa di molto affascinante confermò ciò che ho appena detto. Ma ne parlerò poco più avanti.


Mi presi giusto il tempo per scattare qualche foto con il telefono e di girare qualche video. Nel frattempo fuori il tempo scorreva, le auto passavano e la giornata volgeva al suo termine. Tutto ciò che era all’esterno, ignorava la mia presenza lì dentro.
Cercavo nel mentre di mettere insieme tutto ciò che avevo visto, di trovare una quadra, nel tentativo di dare un’identità alla casa e a coloro che l’avevano abitata, ma niente. C’erano indizi sparsi che sembravano non avere alcuna correlazione tra di loro.
Finché.L’ultima rampa di scale, portava ad una vecchia soffitta. Era buia e vuota. O quasi. Al centro della soffitta, c’era una valigia in pelle; era socchiusa e chiedeva soltanto di essere aperta. Obbedii a quell’ordine implicito.
Eccolo lì, il Caporale: fiero ed in alta uniforme in una fotografia in bianco e nero degli anni ’30-’40, circondato da buste, lettere, cartoline pubblicitarie retrò e confezioni vuote di lassativi. Ed eccolo ancora in un’altra foto insieme ad i suoi commilitoni.
Mi presi la briga di frugare fra le sue cose, con il consenso silenzioso dell’abbandono. Lessi con trasporto alcune delle sue lettere, curiosai tra le sue foto e fui a quel punto in grado di identificarlo come il Caporale. La ricostruzione di quella parte della sua vita fu molto semplice: un giovane bracciante strappato al suo lavoro dall’incombenza della guerra. “Credere, obbedire, combattere” recitava una cartolina ingiallita di epoca fascista. “Sento che i miei figli già sono grandissimi, si ricordano di me. Io chissà quando vi rivedrò” scriveva in una delle sue lettere.
Il finale purtroppo non è stato scritto. Il caporale, nato nel 1910, avrà sicuramente lasciato questa vita, ed il suo ricordo tramandato, starà probabilmente svanendo nella memoria di chi non l’ha mai conosciuto.

Ed io, un estraneo in casa sua, leggendo della sua storia, delle sue confessioni, per un attimo mi sono sorpreso ad essere, forse, la persona che adesso lo conosce meglio di chiunque altro. Mi sono sentito un amico, un confidente. O forse ho semplicemente disturbato, intrufolandomi di soppiatto in casa sua ed invadendo la quiete che mi auguro esserci una volta lasciata questa vita.
E mentre mi apprestavo ad uscire, prima di socchiudermi la porta alle spalle, mi fermai un attimo ad ammirare le cianfrusaglie, i soprammobili, le cornici rotte ed i fiori finti, respirando per l'ultima volta l'aria viziata dell'ennesima casa non mia, immergendomi nuovamente in quel tipo di realtà in cui il tempo continua a scorrere.Di questa cosa che chiamiamo Urbex, sono tanti gli aspetti degni di nota. Ci sono certamente i castelli in rovina, i palazzi abbandonati, le ville di lusso in decadenza che possiedono una notevole componente estetica. Ma questi abbandoni privati, intimi ed essenziali, lasciano un segno indelebile ed estremamente difficile da trasmettere. Spero tuttavia di esserci riuscito.